La monetazione di  Ancona

Un breve riassunto di 22 secoli di storia monetaria

di Piero  Romagnoli

Nel ricchissimo panorama numismatico italiano, la città di Ancona riveste un ruolo di tutto rispetto, ben al di sopra del gradino che ricopre nella classifica d’importanza delle città italiane.

Se è vero, infatti, che nel periodo medievale anche moltissimi piccoli paesi ebbero la loro zecca (nelle Marche: Fano, Pesaro, Urbino, Macerata, Matelica, San Severino, Fermo, Ascoli, Montalto…e altre), va detto che le loro emissioni furono limitate nel tempo, mentre Ancona batté moneta, a parte la celebre e misteriosa moneta greca del III secolo aC, ininterrottamente dal 1130 circa al 1590, e poi anche nel periodo napoleonico e nel periodo risorgimentale. Questa intensissima attività di conio pone Ancona solo un gradino dietro le grandi zecche italiane di Genova, Milano, Venezia, Firenze e Napoli oltre ovviamente Roma.

Del resto, Ancona, “fondata” (anche se non è corretto parlare di fondazione) da coloni siracusani, condivide con le città della Magna Grecia il privilegio di avere avuto una sua moneta ancor prima dell’arrivo dei Romani. Una sola moneta, a differenza delle più celebri città magnogreche come Siracusa, Gela, Agrigento, Crotone, Metaponto ecc… ma decisamente una “moneta parlante”, che raffigura il profilo della città con il celebre gomito che ha dato il nome alla città (ankòn in greco significa appunto “gomito”). Su questa piccola moneta di bronzo si sono arrovellati per secoli gli studiosi cercando di comprenderne il sistema monetario, se greco o latino, la presenza di multipli e sottomultipli (non esiste indicazione del valore e d’altro canto c’è una enorme variabilità di diametri e pesi fra i vari esemplari), e soprattutto la datazione (oggi si ritiene introno al 215 aC ma c’è chi propende per una datazione più antica, intorno al 268 aC)

A parte la misteriosa moneta greca, e considerando poi che Roma possedeva un sistema di zecche estremamente centralizzato per cui non ci furono monete in Ancona durante i sette secoli di dominio romano, per vedere la prima moneta medievale di Ancona occorrerà attendere il 12mo secolo. E’ bene tener presente quella che fu la grande riforma monetaria di Carlomagno, poco prima dell’ 800, che introdusse in tutta l’Europa Occidentale (Francia, Germania e Nord Italia) la grande riforma della moneta, dotando l’intero continente di un sistema unico non troppo diverso da quello attuale dell’euro. Il nuovo sistema monetario di Carlo Magno, che arrivava dopo secoli in cui la moneta aveva praticamente cessato di esistere, introduceva un’unica moneta d’argento, il DENARO, che era la 240esima parte della libbra d’argento, la quale non era una moneta reale bensì solo virtuale (1 libbra = 338 grammi).

In Italia le prime città ad adottare il sistema carolingio furono Lucca, Milano, Pavia e Venezia. Le prime tre erano città con forti connessioni all’Impero d’Occidente, Venezia invece aveva bisogno di moneta per sostenere i suoi crescenti commerci marittimi con l’Oriente e non attese l’autorizzazione imperiale per battere moneta.

Neppure Ancona, che cominciava nel XII secolo a sentire la necessità di avere una sua moneta per gli stessi motivi di Venezia, attese l’autorizzazione imperiale, e iniziò a battere il suo denaro di propria iniziativa, probabilmente a seguito di un accordo con l’arcivescovo di Ravenna, visto che i primi documenti parlano di “denari anconetani vel ravennates” Non è chiaro quando ciò avvenne: presumibilmente fra il 1130 e il 1170.

Il primo denaro anconetano era una monetina d’argento che conteneva solo scritte, non immagini in quanto la tecnologia dell’epoca non ne consentiva ancora il conio (si ricordi che greci e romani coniavano tranquillamente immagini 1500 anni prima, e questo dà un’idea del grado di sottosviluppo in cui era piombata l’Europa dell’Alto Medioevo!). Come tutte le monete dell’Europa Occidentale, da un lato riportava la croce, simbolo della Cristianità, e la scritta DE ANCONA in caratteri medievali. Sull’altro lato era rappresentato il nome del Santo patrono, con le lettere: PP QUIRIACUS dove PP sta per “Patronus Primarius” mentre Quiriacus (con la U scritta come V, come si usava nel Medioevo) era il nome latino di San Ciriaco. Dato che la moneta era molto piccola e le scritte dovevano invece essere piuttosto grosse, l’intera circonferenza non era sufficiente, e ospitava solo PP QVIRIA mentre le ultime 3 lettere CVS si trovavano al centro.

Il denaro anconetano venne utilizzato ininterrottamente per oltre 250 anni e per almeno un secolo fu anche l’unica moneta circolante. Verso la fine del Duecento, come tutte le città commerciali (Genova, Milano, Venezia, Firenze) anche Ancona, il cui volume di traffici marittimi si stava estendendo, sentì il bisogno di creare un multiplo del denaro. Di nuovo, il progetto avvenne di pari passo con Ravenna: le due città si accordarono per creare la nuova MONETA GROSSA, che valeva 24 denari. Nasceva la più celebre moneta anconetana, il GROSSO AGONTANO (agontano è una storpiatura di anconetano), bellissima moneta d’argento che finalmente raffigurava San Ciriaco, secondo l’iconografia bizantina. La moneta ebbe un successo strepitoso in tutto il Centro e il Nord Italia e venne utilizzata per innumerevoli scambi commerciali anche in Oriente.

Un complesso gioco basato sulle (leggere) differenze di peso fra le monete delle varie città unitamente all’esigenza che i Comuni avevano di adattare le loro monete all’inflazione, determinò il precario equilibrio fra i diversi Comuni. Nel Medioevo, infatti, a differenza di adesso, le monete non avevano valore nominale e valevano per l’intrinseco di metallo prezioso che contenevano, e si potevano spendere anche in altri Stati. Il successo del grosso agontano influenzò per esempio gli equilibri di un’altra grande potenza commerciale, cioè Bologna, la quale adottò l’agontano bolognese, Ma nel Trecento, Bologna stava riscuotendo un successo crescente con la sua moneta grossa, chiamata BOLOGNINO e diffusasi presto in tutta l’Emilia, la Romagna, le Marche e l’Umbria.

Ancona creò quindi il suo bolognino, moneta più leggera del grosso agontano e coniata in tante varietà, di cui le più belle e ricercate sono quelle con lo stemma cittadino del cavaliere armato.

Nel Quattrocento, tutte le città italiane sentirono il bisogno di creare anche degli spiccioli, dato che ormai le città avevano preso il sopravvento sulle campagne, e necessitavano di contante anche per le piccole spese quotidiane del popolo. Nacquero così i QUATTRINI, che inizialmente valevano 4 denari. I quali denari esistevano ancora, solo che, dopo due secoli d’inflazione, avevano perso gran parte del loro valore, non erano più d’argento ma di metallo vile (detto anche mistura) e venivano chiamati PICCIOLI (in contrapposizione con i denari grossi o semplicemente “grossi”).

La seconda metà del Quattrocento in Ancona è caratterizzata dalla progressiva perdita di autonomia, sia politica che economica, e dalla crescente ingerenza del Papato. Sulle sue monete compaiono le CHIAVI DECUSSATE (cioè incrociate), simbolo della Santa Sede. Alcuni Papi quattrocenteschi, come il celebre Pio II che morirà proprio in Ancona nel tentativo abortito di organizzare una grande Crociata contro i Turchi, lasciarono i loro stemmi di famiglia sulle monete anconetane.

L’ inizio del Cinquecento vede salire sul soglio di San Pietro il terribile Giulio II Della Rovere, il Papa che non esitava a prendere le armi per sottomettere le autonomie dell’Italia Centrale. A Giulio II si deve una grande riforma monetaria, con la creazione di una nuova moneta d’argento, che proprio da lui prenderà il nome di giulio e che avrà una vita lunghissima, di svariati secoli. La nascita di questa moneta si deve al fatto che le monete dello Stato della Chiesa avevano un contenuto intrinseco di argento superiore rispetto a quelle degli altri Stati italiani, quindi, dato che le monete potevano circolare in tutta Italia, tendevano ad essere tesaurizzate mentre lo Stato pontificio si andava progressivamente riempiendo di monete di valore intrinseco più basso. Il Papa avrebbe potuto diminuire l’intrinseco delle proprie monete, invece Giulio II fece esattamente l’opposto: creò una moneta leggermente più grande del precedente grosso, ma che valeva il 30% in più, cioè 39 quattrini anziché i 30 del grosso. Nei giuli di Papa Giulio II compare l’iconografia dei due grandi Santi padri della Chiesa Romana, San Pietro con il libro e le chiavi, e San Paolo, con la spada.

La monetazione del Cinquecento anconetano manterrà per qualche decennio i temi cittadini (lo stemma col cavaliere o l’immagine di San Ciriaco) ma poi, al termine dell’indipendenza anconetana, nel 1532, l’unico fattore di identità cittadina resterà la scritta ANCONA o addirittura la semplice scritta MARC, che stava per “Marchia Anconae”. Tutti i Papi emettono moneta per Ancona nel Cinquecento: alcuni come Leone X (Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico) erano anche insigni umanisti e fecero coniare per la città degli autentici capolavori rinascimentali. Le monete di Leone X sono splendide opere d’arte. A metà Cinquecento verranno creati i TESTONI, grosse monete d’argento del peso di 9 grammi, che valevano tre giuli. Anche l’oro era comparso stabilmente nella numismatica papale, e la moneta aurea di base era lo SCUDO (che resterà la valuta papale fino alla scomparsa dello Stato pontificio)

Fu Papa Sisto V, marchigiano di Grottammare, a far cessare la monetazione di Ancona, nel 1590, non in ottica punitiva verso la città, ma nel quadro di una progressiva riduzione delle zecche periferiche: ala fine del processo resteranno infatti attive solo le zecche di Roma e di Bologna.

La zecca di Ancona resterà senza monete per oltre due secoli, durante i quali però vennero coniate delle splendide medaglie commemorative sia per la concessione del Porto Franco ad Ancona nel 1732 sia, nello stesso periodo, per l’inaugurazione della nuova Mole Vanvitelliana.

Le emissioni di monete riprenderanno nel 1796 da parte di Papa Pio VI Braschi (quello di Porta Pia…) il quale, trovandosi a fronteggiare un’enorme carenza di circolante, riaprì 17 zecche periferiche nelle Marche, in Umbria e nel Lazio, e creò il SAMPIETRINO, moneta di rame del vaolre di 2 baiocchi e mezzo (il baiocco era la centesima parte di uno scudo), che è la prima moneta anconetana in cui compare il valore nominale. Erano tempi turbolenti: scoppia la Rivoluzione Francese e pochi anni dopo inizia l’avventura napoleonica che getterà lo Stato pontificio nello scompiglio.

Interessantissime, proprio nel periodo napoleonico, le monete OSSIDIONALI (cioè create durante un assedio) della Prima Repubblica Romana, quando Ancona fu sottoposta all’assedio navale della flotta austro-russo-turca, nel 1799. Per coniarle in grandissima quantità vennero fusi gli arredi sacri e persino il bronzo delle campane.

Anche l’ultima moneta anconetana è una moneta ossidionale. Siamo nel 1849, ai tempi della Seconda Repubblica Romana. Ancona e Venezia sono le ultime città ad arrendersi all’assedio austriaco, ed è durante questo terribile assedio che vengono coniate, con mezzi di fortuna, le monete da 1 baiocco che la leggenda vuole siano state usati persino come proiettili di cannoni negli ultimi tragici giorni dell’assedio.

Con l’annessione al Regno d’Italia, la numismatica anconetana cessa la sua storia bimillenaria: la città entra a pieno titolo nel Regno d’Italia e nel suo sistema monetario basato sulla Lira.

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