M.A.V.M.  Luciano Maiolatesi : il leone della Folgore

 

di Marco Palmolella

 

Luciano Maiolatesi era nato a Belvedere Ostrense (An) il 2 Aprile 1920, era figlio di Assunta Corinaldesi e di Ernesto, quest’ultimo un bravo decoratore e capace clarinettista nella locale banda musicale. Luciano era il maggiore di tre figli, oltre a Luciano c’erano Palmira e Rosa. Rimasti orfani di padre nella fanciullezza, qualche anno dopo la mamma Assunta decise di trasferirsi a Jesi, così i tre bambini crebbero nella zona del Prato. Per aiutare la famiglia, Luciano, già ragazzo robusto, lavorava presso i cordai “per brillare la ruota”, con queste azioni si confezionavano le corde. Infatti, l’attività dei cordai, in quel quartiere di Jesi, nella prima metà del secolo scorso, era molto fiorente.

 

Particolarmente portato per lo sport, divenne un ottimo portiere di calcio, giocando fino alla guerra in porta con la Jesina calcio. Purtroppo per la carriera di Luciano, il gioco del calcio, in quel tempo, non offriva quelle entrate economiche che gli avrebbe permesso di condurre una vita da atleta professionista. Pur essendo un grande giocatore, tanto che avrebbe potuto accedere alle squadre superiori, mancavano le condizioni economiche per un suo trasferimento in altre città e nelle formazioni calcistiche più titolate. Chiamato alla leva militare dall’esercito, di nascosto dalla famiglia, fece domanda volontaria di arruolamento per entrare nel corpo dei paracadutisti. La mamma e le sorelle non sapevano nulla di questa scelta; infatti, Luciano, per non mettere in apprensione la famiglia, nascose questa decisione a tutti, anche agli amici. Fu inviato per l’addestramento alla Regia Scuola di Paracadutismo di Tarquinia. Infatti, nel 1940, nasceva in Italia la prima Scuola Militare di Paracadutismo che era animata dal Colonnello pilota e paracadutista Giuseppe Baudoin de Gillette. In questa scuola arrivarono i giovani di ogni reparto delle forze armate, si registrava una grande abbondanza di volontari, ma anche una rigorosa selezione, tanto che oltre il sessanta per cento dei volontari paracadutisti furono scartati e rimandati ai loro reparti di provenienza. I ragazzi che superarono la selezione erano l’elite delle forze armate italiane, valorosi e prestanti fisicamente, tra questi c’era anche Luciano Maiolatesi.

 

La Scuola Militare di paracadutismo, in origine non aveva molte attrezzature, c’era solo un campo di volo e qualche baracca, ma l’audace Colonnello Giuseppe Baudoin de Gillette razziò in tutta Italia, anche di nascosto, torri metalliche, tende e altre attrezzature utili per l’addestramento, che poi diventarono le dotazioni di Tarquinia. Il 1 Luglio 1940, Luciano Maiolatesi fu inserito nel 1 Battaglione Paracadutisti di Tarquinia comandato dal Tenente Colonnello Bensi. A causa di una aspra contesa con l’Arma dei Carabinieri per l’assegnazione del numero 1 del Battaglione ci fu un cambio al comando del Battaglione, il Comandante Bensi fu sostituito dal Magg. Mario Zanninovich, ma non venne meno lo spirito, la volontà e l’audacia in tutti i paracadutisti.

 

Il ten. Col. Mario Zanninovich, di antica famiglia dalmata, divenne il nuovo comandante del II battaglione. Per Luciano seguirono mesi di duro addestramento, molti lanci si svolsero congiuntamente ai reparti tedeschi sia nella zona di Viterbo, sia in quella di Bolzano.

 

Nel 1942, nei mesi di Marzo ed Aprile, il  2° Battaglione, con alcuni Battaglioni dei Reggimenti 186°, 187° ed i Gruppi del 185° Artiglieria, furono trasferiti in Puglia, a Lecce, per preparare la conquista di Malta e di alcune zone della Grecia, tra queste Cefalonia, Zante e Itaca. In realtà, molti di questi reparti, in Estate, furono poi inviati in Africa Settentrionale, nel deserto libico e “impiegati come fanteria leggera con l’avanzata del Generale Rommel. Avanzata che si fermò in Egitto, a 111 Km. da Alessandria d’Egitto, nei pressi di El Alamein, nella linea che parte dalla costa sino alle depressioni di El Qattara, 60 Km circa. La Divisione Paracadutisti Folgore, denominazione che solo allora le fu assegnata, copriva circa una ventina di chilometri, dal limite della depressione, dove sorgono due colline denominate dai Beduini  “il cammello” e chiamate El Himeimat, in direzione nord sino a El Munassib. In questo tratto la 6° Compagnia di Luciano Maiolatesi fu staccata dal II/187° Btg. e mandata a formare il Raggruppamento Ruspoli. La sesta Compagnia fu schierata a quota 105, a difesa di un grande campo minato, con un fronte di circa tre chilometri. La zona era piatta, senza tante possibilità di difesa all’infuori di quella di scavarsi, senza attrezzi idonei, delle buche, il più profondo possibile, per difendersi dal fuoco delle artiglierie e dagli attacchi dei mezzi corazzati inglesi. A Luciano venne assegnato un settore dove, con il suo mitragliatore, il Breda 30, doveva contrastare il nemico, mentre la difesa controcarro era affidata ad una batteria di cannoni da 47/52 del 1/185°. La notte del 23 Ottobre 1942, alle 21,00 circa, con un tiro di preparazione di artiglieria inglese di inaudita violenza, iniziava la Battaglia di El Alamein, che continuò fino alle luci dell’alba. Quando cessarono i tiri di preparazione, i paracadutisti della 6° e tutto il Raggruppamento, videro avanzare i primi carri Sherman, Matilda, Valentie e Grant, tutti dotati di ottime artiglierie da 75, 57 e 37 m/m. Alcuni di questi carri erano attrezzati con le catene battenti per creare dei varchi nei campi minati, erano seguiti dalle fanterie. La gloriosa 6° Compagnia paracadutisti, con l’appoggio di una Batteria di artiglieri del 185°con i pezzi da 47/52, resistette per quasi tutta la giornata. Molti paracadutisti morirono, altri, esaurite tutte le munizioni, furono feriti e medicati con mezzi di fortuna. Senza colpi da sparare, i paracadutisti italiani furono sopraffatti da un nemico in forze superiori e tagliati fuori da ogni contatto con il Comando, i superstiti si dovettero arrendere”.1

 

Durante la battaglia Luciano Maiolatesi fu colpito. Non riusciva più a combattere, sia perché aveva esaurito tutte le munizioni del suo mitragliatore Breda e le bombe a mano, sia perché era stato gravemente ferito alla mano destra e all’avambraccio.

 

Ecco il racconto di Luciano Maiolatesi pubblicato nel testo: “Paolo Caccia Dominioni (a cura di). Le Trecento Ore a Nord di Qattara. Antologia di una battaglia”. In questo libro documento, un intero capitolo è dedicato allo jesino ed è intitolato: “Luciano Maiolatesi. Due giorni molto lunghi. Pagg. 213 – 220”.

 

Al mattino del 23 Ottobre ero rientrato da un pattugliamento nella zona davanti a Deir el Munassib; nel nostro giro, durante la notte, non avevamo incontrato nulla di anormale, anzi, tutto ci era sembrato più calmo del solito. Mi sentivo stanco, spossato dalla marcia e dalla veglia, ma entro la buca il tempo non passava mai, anzi era lento, con le mosche che rendevano ancora più difficile il riposo. Mi giravo e rigiravo nell’angusto spazio, mentre il caldo mi rendeva madido di sudore e la camicia si incollava alla mia pelle: e il disagio cresceva. Fuori tutto era tranquillo, sembrava che la guerra fosse lontana. Non si udivano né rumori, né spari. Nulla faceva presagire che da lì a poche ore miglia e migliaia di uomini si sarebbero azzuffati nella più grande battaglia del fronte egiziano. Me ne stavo immobile, assorto nei miei pensieri che per la verità non erano rosei. Solo la volontà di compiere il mio dovere mi sorreggeva. Forse era la tristezza, forse era la nostalgia della mia casa. Poi la spensieratezza dei miei ventidue anni prese il sopravvento su ogni pensiero molesto, allontanando da me ogni spettro di ansia e di timore: e così, più sereno, mi addormentai. Qualche ora di riposo mi aveva rinfrancato, ma era anche vero che il fisico ormai cominciava a logorarsi per la cattiva alimentazione, per la vita in buca, per i disagi. Eppure lo spirito era ancora più saldo di quando avevo lasciato la mia bella Italia, e questo, in quel momento, era quello che contava. Se, ogni tanto, mi rendevo conto di essere fatto di carne ed ossa, e un pensiero dominante mi interrogava: potrei reggere? Non vacillerai? Il pensiero molesto mi torturava e lo scacciavo, ma quello tornava puntualmente. Sapevo perfettamente quale compito mi era stato affidato, e sapevo pure che, in caso di attacco nemico, la morte sarebbe stata al mio fianco, compagna paziente nell’attesa. Le prime ombre della sera calarono. Uscii dalla buca a guardare le stelle. Brillavano vivide e la maestosità del creato mi portava tanta serenità. Gli astri mi davano profonda commozione. Il mio spirito varcava lo spazio, andava a casa mia, da mia mamma, lontano dal mondo brutale della guerra. Stupendi pensieri mi fecero sentire la bellezza della vita. Sdraiato nella sabbia mi lasciavo cullare da sogni mentre la brezza portava sollievo alla mia arsura. Mi salirono alle labbra le note ardenti della nostra canzone: - Come Folgore dal cielo -. Un sinistro bagliore di fuoco mi richiamò alla realtà, e tutto l’orizzonte si illuminò di rosso, come se fosse scoppiato improvvisamente un colossale incendio, dalla Depressione al mare. Una valanga di ferro e di fuoco, dalle linee inglesi, si rovesciò sulle nostre. Una coltre impalpabile di polvere e sabbia si innalzava verso il cielo, mentre miriadi di schegge vagolavano per l’aria, cercando carne da mordere. Lampi accecanti, urla, schianti dominavano la notte che non era più notte e che rendeva ancora più tragica la scena. Attesi l’attacco, appiattito nella buca. Il fumo delle esplosioni e le nuvole di sabbia avevano steso una cortina davanti alla mia postazione, ma gli occhi riuscirono a scorgervi delle ombre e aprii il fuoco. Il dito stringeva il grilletto del mitragliatore, convulsamente, l’arma ubbidiva cantando e la vampa scaldava il mio viso, teso fino allo spasimo. Attento, coll’arma salda nelle mani, battevo con fuoco concentrato il settore che mi era stato assegnato: il nemico avanzava a sbalzi, si gettava a terra, si rialzava, correva, gridava: e io sparavo. Sentivo attorno a me il miagolio delle pallottole, ma avevo un solo pensiero, resistere e sparare secondo la consegna. Il duello durò ore. Attorno a me non era che distruzione e morte, ma il nemico non guadagnò un metro, restò inchiodato davanti al caposaldo, provò invano, e riprovò con veementi assalti. Nessun centro italiano cedette. Noi paracadutisti della sesta compagnia eravamo incollati su quella sabbia: il grido - Folgore! - superava lo stesso frastuono della battaglia. Vennero con i carri leggeri e con le bombe a mano: furono ributtati. Vennero con i carri pesanti, e allora riuscirono ad annientare qualche centro di fuoco, ma anche essi furono fermati e tanti roghi nella notte testimoniarono che le zampate dei Leoni della Folgore avevano lasciato solchi profondi. Era quasi l’alba, e vidi avvicinarsi, sulla destra, un carro pesante. Lasciai l’arma e presi una bottiglia incendiaria, pronto a lanciarla, ma prima che mi fosse a tiro, vidi alcune ombre alzarsi da terra, corrergli incontro, gettare qualcosa. Pochi attimi dopo il carro fu avvolto da fiamme, ma passò, manovrò, tornò sulle proprie tracce aprendo un fuoco micidiale con le sue armi. Quei prodi furono falciati, mentre io, impotente, ero inchiodato nella mia buca. Un pezzo anticarro, poco lontano, provò a distruggere quel mostro, ma quelle piccole granate non potevano far nulla contro quella spessa corazza: finché una fiammata si levò attorno al cannoncino: un boato, poi il silenzio. Il pezzo e i suoi bravi serventi non esistevano più. Vedevo il carro a un centinaio di metri da me: col suo pezzo distruggeva e uccideva. Un altro centro di fuoco saltò in aria. Sapevo che con la mia arma non potevo fare nulla, ma non potei più trattenermi, urlai: - Folgore - con tutta la mia rabbia, e sparai con foga contro il carro. Che almeno sentisse la mia voce e comprendesse che il caposaldo era ancora efficiente. Un duello tra un pigmeo e un gigante. Che cosa può fare un mitragliatore contro un cannone da 75? Intanto era venuta l’alba e tutto era cambiato. Il giorno nuovo aveva fugato le ombre della notte, portando un po’ di calma. Mi guardai attorno e non riconoscevo più il posto. In quelle poche ore molte cose erano cambiate: il campo minato non esisteva quasi più, il terreno era sconvolto dalle esplosioni, mentre carcasse di carri lentamente si consumavano nelle fiamme, innalzando verso il cielo un fumo acre e nero. Giacevano molti corpi, nelle posizioni più disparate. Soccorritori giungevano ai feriti che si lamentavano. Morti amici e nemici giacevano frammischiati, purificati dal sacrificio per la propria Patria. Uomini che non si conoscevano, presi nell’ingranaggio della guerra, appartenenti a razze diverse si erano scagliati gli uni contro gli altri in una zuffa mortale, insanguinando quell’arido deserto infestato da mosche e da scorpioni. In mezzo a tanto sfacelo, a tanta rovina, ero passato indenne. Non avevo pensato a nulla, avevo fatto il mio dovere, ma quanto avrei durato? Bevvi dalla borraccia un lungo sorso d’acqua, che non calmò l’arsura: avevo la gola in fuoco. Approfittai di quegli istanti per controllare l’arma, prendere altre munizioni e bombe a mano. Finalmente mi rilassai. La calma durò poco e la battaglia divampò di nuovo. La mia mente si sgombrò da ogni pensiero e ripresi a sparare. Non avvertivo né fame, né sete, ma sentivo il mio cuore palpitare e confondere i suoi battiti con tatatà dell’arma. Vivevo in un mondo irreale, mi sentivo sordo pur percependo rumori e suoni. Avvertivo la presenza della morte, la vedevo in faccia, ma non mi faceva più paura. Poi, mentre uscivo dalla postazione, udii un fragore di tuono, mi sentii avvolto da una vampata e violentemente urtato al braccio destro. Un dolore lancinante mi fece cadere in ginocchio: strinsi i denti per ricacciare in gola un urlo, vidi un fiore scarlatto che si disegnava nella sabbia. Mi passai alcune volte la mano sinistra sul viso, che doveva essere una tragica maschera di sudore, sangue e arena. Guardai il sole già alto, mi alzai in piedi, invocando Dio e la mamma. Poi ci fu la cattura. Fasciato alla meglio attendevo il mio turno di essere medicato al pronto soccorso inglese, istallato a soli cento metri dalla linea del fuoco. Guardavo verso il mio caposaldo e pensavo a quelli che non ne sarebbero più ritornati. Mi misi a piangere pensando alle mamme, alle spose, alle sorelle e ai figli che invano avrebbero atteso il ritorno dei loro cari. E quanti amici tra loro, mentre l’attesa di mia madre e delle mie sorelle avrebbe pur avuto, alla fine, la luce del ritorno. Ma gli amici avevano avuto la giovinezza stroncata per essere stati fedeli alla consegna avuta. Per me la via del ritorno, senza dubbio, sarebbe stata cosparsa di spine, ma per essi non v’era che la palma del martirio. Udivo gemiti e urla. Vedevo corpi maciullati e pieni di sangue. In una spianata la fila dei morti si allungava sempre più. Erano allineati come per una parata. Per i nemici morti non provavo né odio, né rancore, ma una grande pietà: anche essi avevano lottato per una Patria e per un ideale. Lo spettacolo crudo ed orrendo mi fu compagno per ore, nell’odore del sangue e della carne bruciata che prendeva allo stomaco. Non lo dimenticherò mai. Finalmente venne anche il mio turno e mi portarono dentro una grande tenda bianca. Uomini sporchi di sangue mi adagiarono sopra un lettino di medicazione, mi tagliarono gli indumenti di dosso, mi diedero una sigaretta e mi fecero una iniezione. Quindi venne il buio. Mi svegliai in un altro posto: il braccio ferito era stretto in una ingessatura e sentivo ancora dolore. Da lontano giungeva il rombo del cannone. Avevo gli occhi velati, vidi due soldati inglesi che mi montavano la guardia, poi il sonno mi vinse di nuovo. Non so quanto dormii. Fui svegliato da qualcuno che mi scuoteva. Vidi seduto presso a me un ufficiale medico inglese e un sottufficiale. Questi aveva in mano dei fogli, e, con un italiano approssimativo, mi chiese nome, cognome, grado e reparto di appartenenza. Diedi le mie generalità con calma, sollevandomi un poco sulla barella ov’ero adagiato, ma con fierezza dichiarai di essere un paracadutista della Folgore. L’ufficiale mi guardò sorridendo, mentre il sottufficiale scriveva, mi diede una sigaretta che accettai ringraziando. Poi se ne andarono, dopo avermi salutato militarmente. Da quel momento cominciava per me la vita dolorosa di ospedale e di prigionia, ma non mi sentivo un vinto. Per alcuni giorni vagai con una autoambulanza nelle immediate retrovie del fronte. A ogni tappa, sotto la tenda, mi vedevo sempre circondato da soldati inglesi che chiedevano, con curiosità e anche con ammirazione: -tu Folgore?- E rispondevo con orgoglio di sì. Comprendevo che veramente noi paracadutisti ci eravamo fatti una fama, se lo stesso nemico ci rispettava e ci ammirava. Dopo tanto peregrinare sulle piste desertiche, l’autoambulanza prese finalmente il nastro di asfalto e mi ricoverarono in vero ospedale, ad Alessandria, vi trovai tanti e tanti feriti italiani. Questa è la storia di due giorni molto lunghi, lunghi come l’eternità”2.

 

Luciano fu fatto prigioniero dagli Inglesi e portato in un campo di prigionia nei pressi del Canale di Suez dove ricevette cure sommarie e inadeguate alla gravità. Per gli Inglesi, in quelle condizioni, Luciano Maiolatesi non era più utile all’esercito italiano, per questo motivo non seguì la sorte di altri combattenti inviati prigionieri in India o nei campi di lavoro degli alleati, ma fu considerato non idoneo ad ogni attività. Per questo motivo Luciano Maiolatesi entrò in un gruppo di prigionieri italiani destinato ad essere scambiato con pari numero di soldati inglesi prigionieri. Luciano fu imbarcato su una nave battente bandiera della Croce Rossa e inviato, nel Dicembre 1942, a Bari.

 

Qui ricevette altre cure, ma non risolutive, alla fine fu inviato in convalescenza a Jesi, presso la famiglia, riabbracciando le sorelle Palmira, Rosa e la mamma Assunta che, da quando era iniziata la guerra, non avevano più avuto sue notizie e si temeva anche per la sua vita. Luciano riprese le vecchie passioni. Nonostante la ferita, con l’avambraccio completamente devastato, impossibilitato di giocare a calcio come portiere, tornò alle competizioni con la Jesina, giocando ala, risultando un veloce e bravo attaccante; il fisico del resto, dopo il durissimo addestramento da paracadutista, era integro e migliorato. Giocava bene anche come attaccante ed era molto ammirato dai suoi concittadini. Vista l’impossibilità di guarire e di ritornare alle armi, fu assunto dal Comune di Jesi.

 

Terminata la guerra, il Generale Mario Zanninovich si ricordò di Luciano e dell’eroica battaglia di El Alamein e lo propose per una medaglia al Valor militare che gli fu concessa con la seguente motivazione: “Caporale paracadutista mitragliere capo arma già distintosi per intelligenza ed ardimento in precedenti azioni, attaccato da forze preponderanti contribuiva col fuoco calmo e preciso della sua arma a respingere un accanito attacco. Nuovamente attaccato, sorpassato, ma non sopraffatto dal numero e dai mezzi, continuava a rimanere al suo posto ed a dirigere il micidiale fuoco della sua arma. Gravemente ferito, esaurite le munizioni, rimasto con pochi valorosi, persisteva in tenace lotta a colpi di bombe a mano finché riusciva, in virtù di audacia e stoica fermezza, a rintuzzare l’aggressività dell’attaccante. (24 Ottobre 1942)”.

 

Luciano Maiolatesi e gli altri paracadutisti combattenti ad El Alamein ricorrono in molti testi storici sulla seconda guerra mondiale e in particolare sulla battaglia di El Alamein, basti pensare ai seguenti autori: Alberto Bechi Luserna, Sisto Bodriti e Paolo Caccia Dominioni. Quest’ultimo, conte e barone, 14° signore di Sillavengo, generale, è stato un testimone oculare della vicenda di Luciano; infatti, anche lui fu ad El Alamein, era stato assegnato con il suo reparto di rinforzo alla 185° divisione paracadutisti Folgore riuscendo a sfuggire all'accerchiamento. Malgrado le cure presso il locale ospedale praticate a Luciano, la mano destra colpita ad El Alamein non riusciva a guarire, aveva perso completamente la sensibilità dell’avambraccio e della mano, nonostante la sorella Palmira, infermiera, si prodigasse con mille attenzioni. Per la mancanza di una corretta circolazione sanguigna, l’avambraccio era colpito da cancrena, i piccoli interventi chirurgici non furono risolutivi tanto che fu costretto al ricovero presso l’Ospedale Rizzoli di Bologna per l’amputazione dell’intero avambraccio, una soluzione per scongiurare danni peggiori.

 

La sera del 3 Maggio 1956, dall’Ospedale Rizzoli di Bologna dove era ricoverato, prima dell’intervento, volle scrivere, usando per l’ultima volta la mano destra, al suo caro comandante, il Generale Mario Zanninovich. Questo documento fu conservato dal destinatario e fu pubblicato in molti testi che costituiscono la letteratura più importante intorno la battaglia di El Alamein e sulla storia dei paracadutisti della Folgore. Ecco la lettera:

 

Bologna 5 Maggio 1956.

 

Signor Generale,

 

sono da alcuni giorni ricoverato qui all’Istituto Rizzoli di Bologna, ma ho aspettato prima di scriverLe per sapere che operazione mi facevano o quando. Stamane è passato il Direttore e ha deciso di operarmi domani mattina, facendo l’amputazione della mia mano destra.

 

Questa notizia mi ha colpito, ma ora sono sereno perché nell’attimo che entrerò nella sala operatoria il mio pensiero andrà lontano, laggiù a El Alamein e rievocando quelle giornate avrò forza e farò sì che la mia paura scompaia. Vedrò il sorriso dei mie cari compagni Caduti. Essi saranno attorno a me e mi daranno forza, farò conto di andare ancora all’assalto per la mia cara Patria, sarà questa la mia forza, sarà questa che mi farà essere sorridente anche in questa dura prova. Questa nuova sofferenza, questo mio nuovo sangue sia per la mia amata Patria come un germe da cui sboccerà il fiore che ricordi agli Italiani di essere tali e che lontano dormono il sonno eterno tanti eroici Fratelli, quelli che furono i migliori, coloro che tutto diedero e nulla chiesero, coloro che sono vivi in noi nel ricordo perché ci furono d’esempio ieri, oggi e domani. Nel mio ricordo, mai spento sta Lei Comandante, in questo momento in cui dovrò affrontare una nuova dura prova penso a Lei che mi ha insegnato ad essere forte, di amare tanto la Patria. Questo pensiero sarà lo stimolo, affinché nel mio cuore entri la forza, come ne ebbi nel lontano ‘or’ in quelle giornate di gloria e di dolore. Prima di venire qui a Bologna, per farmi animo, ripassai tutte le Sue lettere, le lessi e rilessi perché in esse trovo la mia giovinezza, la mia forza, ma soprattutto trovo il bene che Lei Signor Comandante ha per me, come pure in esse io ho la certezza che per la Patria è bello donare ancora il sangue. Perdoni se con questa mia Le ho rubato un po’ di tempo e nell’attesa di avere una Sua Lettera, Le invio tanti distinti saluti.

 

Il Suo vecchio paracadutista Luciano Maiolatesi”.

 

Il Generale Paolo Caccia Dominioni nel testo “Le trecento ore a nord di Qattara” pubblicato sia da Longanesi, sia da Mursia, riportava: “Del caporale paracadutista Luciano Maiolatesi, classe 1920, da Jesi, del II Battaglione Folgore, 6° Compagnia. Mutilato, medaglia d’argento sul campo, impiegato presso il Comune di Jesi. Il nemico che lo aveva catturato gravemente ferito, cercò, con successivi interventi, di salvargli il braccio destro. Dopo il rimpatrio, i tentativi continuarono, con nuovi atti operatori, ma soltanto dopo quattordici anni, che furono una estenuante prova, si decise l’amputazione della mano, eseguita il 4 Maggio 1956 presso l’Istituto Rizzoli di Bologna. La sera prima volle scrivere una nobile lettera al suo antico maggiore, il Generale Mario Zanninovich, usando per l’ultima volta la mano destra”. Nel messaggio, riportato per intero nel volume - I Ragazzi della Folgore - di Alberto Bechi Luserna si leggono i passaggi seguenti: - Nel mio ricordo mai spento sta Lei … -. Per Luciano Maiolatesi altri interventi chirurgici, successive amputazioni, dovevano ancora venire in seguito. Un calvario di un quarto di secolo. Ma l’uomo resta, fisicamente e moralmente, atletico e dominatore, fiero e impavido. Mai si è ripiegato su se stesso, circondato dall’orgoglio e dall’affetto dei vecchi paracadutisti Folgore e dei Guastatori del XXXI Battaglione, che lo considerano una fiaccola e come esempio incomparabile”.

 

Maiolatesi, nel dopoguerra, fu assunto dal Comune di Jesi, svolse una vita normale; ben presto si abituò a lavorare con la mano sinistra, scriveva benissimo e velocemente sia a mano, sia con la macchina da scrivere. Svolgeva tutte le attività in autonomia, senza mai lamentarsi, usando solo la mano sinistra.

 

Il Generale Paolo Caccia Dominioni, nel dopoguerra, fu più volte ospite di Luciano a Jesi e lasciò alla famiglia Maiolatesi anche alcuni quadri in ricordo della Sua ecletticità. Tantissimi militari, ancora in servizio, spesso venivano a Jesi per incontrare Luciano. Iniziò ad occuparsi di paracadutismo, non solo perché ebbe la voglia e il coraggio di lanciarsi in tandem anche dopo l’amputazione del braccio, ma perché promosse ed incrementò la vita e l’associazionismo paracadutistico sia nella provincia di Ancona, sia in ambito nazionale. Luciano, dopo il congedo, era diventato membro della sezione di Ancona dei paracadutisti, istituita dal paracadutista Corrado Ricci nel 1947. Luciano fu un socio attivo, collaborando sempre con tutti paracadutisti della sezione fino all’ultimo giorno della sua bella vita. Ricordiamo solo alcuni nomi dei paracadutisti attivi in sezione: Alberto Frattini, William Tabone, Arnaldo Dolcini, Lorenzo Catalani, Franco Fioretti,  Edoardo Mengoni, Silvio Brilli, Giuseppe Mazzanti e il mitico Maresciallo Renzo Di Bert.

 

Luciano Maiolatesi fu Presidente della Sezione paracadutisti di Ancona tra il 1975 e il 1991, fu un impegno gestito con grande passione e slancio, tanto che la sezione dei paracadutisti di Ancona raggiunse un altissimo livello di prestigio fino ad arrivare ad occupare il terzo posto in assoluto come numero di iscritti, subito dopo Milano e Roma. Nella sua sezione anconetana raccolse importanti adesioni di ufficiali paracadutisti di tutta Italia. Condivise l’amicizia con associazioni paracadutistiche di tutta Europa, in particolare in Francia e in Belgio, partecipando ai loro raduni o invitando i paracadutisti europei nella varie manifestazioni marchigiane, principalmente a Filottrano. Luciano Maiolatesi dedicò tutta la sua vita alla conservazione della memoria dei fatti di El Alamein e di altre vicende che ebbero come protagonisti i paracadutisti, per esempio la battaglia di Filottrano; nello stesso tempo promosse l’attività lancistica, organizzando anche manifestazioni paracadutistiche con trofei in tutte le Marche e promosse l’attività di tutte le associazioni paracadutistiche, italiane ed europee, oltre a quella anconetana. Le istituzioni vollero segnalare questo impegno con dei riconoscimenti pubblici: nel 1978 ottenne il titolo di Cavaliere della Repubblica Italiana e nel 1989 quello di Ufficiale, oltre a questi titoli ricevette moltissimi attestati delle associazioni ex combattentistiche italiane ed europee, ma lui mai si vantò di questo.

 

La morte lo colse all’improvviso, nel pieno della sua attività a favore dei para. Il 4 Dicembre 1991, giorno di S. Barbara, intorno le ore 14,00, Luciano improvvisamente è scomparso. Ai funerali celebrati il 6 Dicembre a Jesi (An), si è potuto vedere l’alta considerazione che Maiolatesi godeva in città e nella Brigata Folgore. Ai suoi funerali sono intervenute tantissime autorità, ricordiamo solo il Presidente nazionale dei paracadutisti Generale Franco De Vita e il Generale Vladimiro Rossi. Un picchetto armato del 5° Btg. ”El Alamein” di Siena ha preso in consegna il feretro e lo ha scortato in armi dalla camera mortuaria dell’ospedale di Jesi fino alla chiesa di San Giovanni Battista. Un paracadutista militare, in armi, seguiva il feretro con un cuscino su cui era stato posto il basco e le onorificenze. Tantissimi paracadutisti, di ogni ordine e grado, venuti a rendere omaggio ad un grande, hanno mostrato commozione e hanno rievocato una miriade di ricordi che vedevano protagonista un uomo che aveva dedicato tutta la sua vita al paracadutismo militare e civile. Pochi uomini hanno avuto così importanti onori, oltre al picchetto in armi, era presente un paracadutista trombettiere che ha suonato il silenzio in chiesa mentre i commilitoni, sul “presentat'arm”, rendevano gli onori militari.

 

 

1 Gran parte di queste notizie sono state acquisite da alcuni opuscoli pubblicati dall’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia, Sezione provinciale di Ancona – M.A.V.M. Luciano Maiolatesi.

 

2 Paolo Caccia Dominioni (a cura di). Le Trecento Ore a Nord di Qattara.Antologia di una battaglia”. Capitolo: Luciano Maiolatesi. Due giorni molto lunghi. Pagg. 213 – 220”.

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