Corsari anconetani

 

I Secoli XVII e XVIII rappresentano, sia per la Storia che per l’immaginario collettivo, l’epoca d’oro della pirateria, praticata da avventurieri e uomini di mare senza scrupoli dalle Antille al Mar della Cina, la cui epopea è stata riccamente celebrata, frammista di leggenda e fantasia, da romanzieri e registi cinematografici.

Anche lungo le coste del Mediterraneo imperversarono, per secoli, i pirati barbareschi - provenienti dal nord Africa - fino ai primi decenni del XIX Secolo.

Nel linguaggio popolare, col termine “pirata” si identifica il bucaniere, il filibustiere ed, erroneamente, anche il corsaro.

Per distinguere quest’ ultimo dagli altri “predoni del mare” riportiamo quanto citato dal Guglielmotti nel suo “Vocabolario marino e militare” sotto la voce “Corsaro”:

“Capitano di bastimento privato che, in tempo di guerra, per patente lettera sovrana, scorre il mare a suo rischio contro navi, merci e persone del nemico.

Termine del diritto privato che distingue il Corsaro dal Pirata…

…Altresì il Bastimento, l’Equipaggio, e l’Armatore che, in tempo di guerra, forniti di patente governativa, si mettono contro i nemici, ne guastano il commercio, molestano i rivaggi, e costringono le armate a diversioni, a convogli, a penuria.”

 

Un po’ di storia

 

A seguito delle sconfitte di Abukir (Egitto) e di Trafalgar (Spagna), che diedero alla Gran Bretagna la supremazia sui mari, anche la Francia adottò la guerra di Corsa.

Già nel 1799, tre corsari corsi avevano partecipato alla difesa della Piazza di Ancona.

Tra i corsari giunti in Adriatico, senz’altro il più famoso, fu il genovese Giuseppe Bavastro (1760-1833), comandante dello sciabecco Masséna intitolato all’omonimo generale francese, suo amico.

Il Masséna, assieme ad altri due trabaccoli corsari fece base ad Ancona, nel novembre 1805, distinguendosi per l’arrembaggio e la cattura, l’un dopo l’altro, di quattro legni nemici avvenuta, nelle acque di Lissa, il 5/12/1805.

L’anno seguente, il Capitano Giacomo Carli, anconetano, comandante del corsaro “Sans Peur” (Senza Paura), assalì uno sciabecco russo presso Lagosta, togliendogli la preda; successivamente lo stesso corsaro fù affondato non prima di aver rifornito di viveri e munizioni il presidio italiano delle Tremiti, assediato dagli inglesi.

Lo stesso Carli si segnalò ancora, nel gennaio 1807, al comando dell’ “Italiano”.

Questo corsaro, assieme al “Carlotta” al “Fortunata” e al “Traiano” (intitolato all’Imperatore Romano che da Ancona si imbarcò per la spedizione contro la Dacia), appartenevano all’armatore riminese Antonio Passano, stabilitosi nella città Dorica frattanto divenuta la base franco-italiana più importante per la guerra di corsa in Adriatico.

La squadriglia del Passano riuscì a catturare, nel solo mese di dicembre del 1807, ben 13 navi Inglesi!

Nel 1808 operarono sulle nostre acque gli anconetani “Adria” e “Vendicatore”. Quest’ultimo corsaro, comandato dal tenente di fregata Contrucci, il 21 maggio fu affondato dalla bordata di una fregata inglese proprio sotto il Monte Conero per poi essere rimesso a galla dal suo stesso bravo capitano!

Le cronache navali dell’anno 1809 fanno menzione, oltre che del citato “Sans Peur” del corsaro anconetano “Caffarelli” (dal casato dell’allora Ministro della Guerra) di Capitan Cassinelli.

I traffici marittimi del Regno d’Italia, già compromessi dal Blocco Continentale voluto da Napoleone nel 1806, dopo la seconda, sfortunata spedizione di Lissa del 1811, furono pressoché in balìa della flotta inglese.

Lo storico militare Dott. Piero Crociani, le cui opere sono alla base di questa piccola trattazione, citando i corsari italiani al servizio dell’Imperatore  sottolinea la presenza dei vicini corsari senigalliesi: citiamo, uno per tutti, il Padron Rognini che, il 28 maggio 1813, alla guida di un convoglio di ben 28 mercantili armati,  si difese strenuamente dalla fregata inglese Bacchante presso Termoli.

Sventato l’attacco, costato la vita a due dei suoi uomini, si meritò un’ingente gratifica governativa.

L’11 Luglio 1813, durante il blocco navale di Ragusa (ora Dubrovnik) da parte della flottiglia inglese, il corsaro anconetano “La Rèveillèe” catturò, proprio nel porto della città dalmata, una feluca avversaria.

E’ ormai prossima la caduta di Napoleone e la fine del Suo Regno, ma fino all’ultimo, sul nostro mare, i corsari anconetani inalberano i colori italiani con la fierezza e l’orgoglio d’essere gli ultimi, coraggiosi eredi, di un’antica repubblica marinara.

 

 

Gli uomini e le armi

 

Anzitutto individuiamo la provenienza o, meglio, l’estrazione “sociale” della nostra “gente di mare”: marinai, pescatori, ma anche arsenalotti, portolotti, disoccupati in cerca di sbarcare il lunario. Voglio pensare, idealmente, anche a qualche concittadino patriota.

Certo, uomini questi che, analogamente a quelli arruolati ed inquadrati nella Reale Marina Italiana erano privi dell’esperienza “bellica” e della professionalità dei loro avversari della Royal Navy. Eppure, dalle scarne cronache pervenuteci, si rileva il coraggio e la perizia dei capitani e dei loro uomini, reclutati nel Porto di Ancona e nelle località limitrofe.

Concorrendo anche alla difesa della navigazione in ausilio le batterie costiere, non era occasionale che i corsari sbarcassero per dar man forte alle guarnigioni locali.

Comunque, ciò che più spingeva alla lotta questi “mercenari del mare” era la preda e la “parte” di loro spettanza, determinata da appositi decreti e regolamenti: si andava, ad esempio, dalle dodici parti spettanti al Capitano fino alla mezza spettante al…mozzo! Un terzo del ricavato andava all’Erario e qualcosa restava anche per la cassa degli invalidi di Marina.

Solo per completare il quadro rappresentativo dei corsari, accenniamo al loro abbigliamento ed armamento individuale: non possiamo parlare, ovviamente, di una vera e propria divisa: i marinai vestivano molto “casual”, diremmo oggi, e forse peggio di come ce li immaginiamo. Alcuni capi di vestiario erano però ricorrenti: pantaloni bianchi svasati con la patta, fazzoletto o “strozzino” al collo, un cappello a falde larghe di paglia d’estate o d’incerata, cinturone e bandoliera di cuoio.

Al fianco, per molti, la micidiale sciabola d’arrembaggio, sia essa d’ordinanza francese o di “preda bellica”, oppure un sabro od un coltellaccio, magari di fabbricazione artigianale.

Alla cintola veniva infilata od agganciata una pistola, che poteva essere tanto di fabbricazione civile che militare. Erano preferite le armi da fuoco corte e comunque di convenienti dimensioni come il trombone, che sparava pallettoni, anche nelle sue versioni ridotte di tromboncino o trombino; fucili da marina, ma anche d’artiglieria, di minor peso e lunghezza rispetto a quelli allora usati dalle fanterie europee.

Armi tipiche per l’arrembaggio erano l’alighiero, arma-attrezzo in asta, la picca, nella sua versione ridotta per il corpo a corpo a bordo, il grappino, specie di ancorotto uncinato usato per aggrappare e danneggiare le sartie, la micidiale ascia, simile al tomahawk pellerossa, il pugnale e, non ultimo, l’inseparabile coltello, tanto a lama fissa che a serramanico.


Franco Sestilli

 

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